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Dai 7 ai 19 anni Marcos ha vissuto con gli animali. In un film la sua avventura 
 
MADRID - A Natale arriva sugli schermi spagnoli «Entre Lobos» (Tra i lupi), un film che il quasi sconosciuto regista Gerardo Olivares ha appena finito di girare. Una pellicola che promette di essere un grande successo. Primo, perché racconta una storia straordinaria. Secondo, perché la storia in questione è vera.
Marcos Rodríguez Pantoja - che nella parte finale del film interpreta se stesso - è el niño-lobo, il bambino lupo, che è stato adottato per 12 anni, tra i 7 e i 19, da un branco. Oggi Marcos di anni ne ha 64 anni, vive a Rante, un paesino della Galizia, ma la sua storia è ben piú drammatica di quella raccontata da Kipling nel «Libro della giungla».
 
Siamo negli anni ‘50, in piena dittatura franchista, in quel paradiso di 400 km quadrati, pieno di boschi, montagne e fiumi della Sierra Morena, tra Siviglia e Cordova. Marcos è il terzogenito di un boscaiolo. La miseria incombe, la madre muore, il padre, che si risposa, va tutto il giorno nei boschi per estrarre carbone vegetale dagli alberi bruciati. La madrigna sfoga frustrazione, rabbia, fame, povertà contro Marcos e fino a convincere il marito a vendere il figlio a un pastore, che poco dopo muore. E così Marcos rimane solo.
 
Il film parte proprio da qui. Le scene sono state girate nella Sierra Morena, in Andalusia, con lupi nati in cattività, ma di razza selvatica. Quando hanno incontrato Marcos, hanno cominciato a ululare, a leccarlo e a fargli le feste. Gli hanno riconosciuto una specie di «appartenenza» così come hanno fatto gli animali della stessa specie già durante il loro primo incontro: «Morto l’uomo che mi aveva comprato mi sono rifugiato nei boschi - racconta oggi Marcos Rodríguez Pantoja - non mi avvicinai mai a un essere umano perché temevo che mi riportassero a casa, dalla mia matrigna. Il primo contatto con i lupi avvenne di sera. Stavo in una grotta piena di lupetti, a cui rubai un pezzo di carne per la fame». E poi aggiunge: «Tornó la mamma lupa, mi vide, si accorse dai resti vicino a me, capì che avevo tolto il cibo ai cuccioli e mi spinse con una zampata contro la roccia. Poi mi guardó negli occhi e mi avvicinó della carne che aveva appena cacciato. Diventai parte della famiglia».
 
Marcos, che adesso fa il contadino e si è riabituato a vivere come un umano (l’abitudine che gli è costata di più è stato il letto), ha vissuto come Mowgli. Vestiva con la pelle dei cervi che uccideva, correva con i lupi e ne imparò il linguaggio. «L’ululato mi fa ancora bollire il sangue nelle vene», assicura e spiega il suo ritorno alla civiltà: «Un giorno mi circondó la Guardia Civil a cavallo. Avevo i capelli lunghi fino alla cintura, scurissimo di pelle per il sole e la sporcizia, vestito di pelli e con i piedi ricoperti di pelle ruvida e calli, non avevo mai portato scarpe. Cercai di scappare ma mi catturarono, mi portarono da un prete che mi spedí a Madrid da suore che mi bloccarono la schiena tra due assi per riabituarmi a camminare dritto».
 
Un rientro alla civiltà non semplice, ma necessario. «Dopo un primo momento di celebrità, ho trovato lavoro alle Baleari. Quando si ricordavano di farlo, mi pagavano pochissimo e in nero. Ad aiutarmi è stato un poliziotto in pensione che mi ha portato in Galizia». E Marcos, alla vigilia di un successo cinematografico che pare assicurato, è felice? «Lo sono stato. I veri lupi sono gli uomini». 
 
GIAN ANTONIO ORIGHI 
La Stampa
 

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