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DAVIDE DEMICHELIS SI RACCONTA A GATTOPOLI

Davide Demichelis ospite a Gattopoli


Ciao Davide,

benvenuto sul nostro sito e grazie per averci concesso un po’ del tuo tempo tra un viaggio e l’altro.

Ciao Elena e buongiorno a tutti i lettori di Gattopoli.


Inizio subito col chiederti: come hai cominciato il tuo lavoro di autore e anche regista dei tuoi numerosi documentari?


Per caso: ho iniziato a scrivere per La Voce del Popolo, settimanale della Diocesi di Torino. Poi un amico mi ha proposto di collaborare con una società che produceva documentari. Io ho sempre amato i viaggi, ma era una passione troppo costosa per me. Quando si è presentata l’occasione che mi consentiva di viaggiare non me la sono lasciata scappare. E così, circa 20 anni fa, nel ‘90 ho girato il mio primo documentario in Italia. Poi, dall’anno dopo, ho iniziato a viaggiare in Africa. Nel ’94 mi sono licenziato da quella società, perché volevo cimentarmi con l’attualità, e da allora sono diventato un libero professionista. Inizialmente mi occupavo di temi sociali, poi ho seguito molte guerre africane: sono stato due volte in Somalia, tre in Sudan, ho seguito la storia di Haiti e del Ruanda nel ’94, l’anno del genocidio..

Poi, per caso, nel ’99 ho iniziato a collaborare con Il Regno degli Animali che nel 2000-2003 è diventato “Il Pianeta delle Meraviglie” e nel 2004-2006 Timbuctu. Abbiamo cambiato vari nomi, ma l’oggetto del programma era sempre lo stesso: un contenitore estivo di documentari di animali trasmesso al sabato in prima serata su Rai Tre.

 

In particolare, tra tanti paesi che hai visitato, l’Africa sembra essere quella che più ti è rimasta nel cuore: si può dire che sei stato colpito dal famoso “mal d’Africa”?


Ah, Si vede???!! Beh, mi fa piacere. In effetti è così.

Devo anche ammettere che io sono stato colpito da tutta la gamma dei possibili “mal d’Africa”. I miei primi viaggi sono stati in Eritrea e in Etiopia, dove ho trovato il giusto mix tra il fascino dell’esotico e il piacere di sentirsi a casa. Molti parlavano italiano, mi invitavano a casa o al bar appena scoprivano la mia nazionalità.
Poi, fra il ‘94 e il ’99, ho vissuto molte esperienze dure, di guerra. E così, nel ’99, quando ho avuto la possibilità di lavorare con “Il Regno degli Animali”, mi sono letteralmente “desaturato” da un’overdose di situazioni pesanti e difficili da gestire, a livello emotivo. Questo mi ha consentito di ritrovare un maggiore equilibrio, superando una fase pesante che mi aveva portato quasi a identificare l’Africa con tutte quelle crisi e quei disastri che avevo vissuto in prima persona.

 
Oggi, quando vado in Africa, mi sento un po’ “a casa”. Anche se non bisogna banalizzare il rapporto con un continente o con culture ricche di storia e di espressioni diverse dalle nostre, come quelle africane. Per me ogni viaggio è unico e implica un rapporto sempre nuovo, prima di tutto con le persone, poi con i luoghi, gli  animali, la natura. Con molti africani l’approccio iniziale è facile, anche se poi non sono così semplici e banali come spesso si racconta.

Gli animali: sono protagonisti di molti tuoi documentari. Quando è nato l’amore così forte nei loro confronti? Il tuo lavoro pensi l’abbia anche accresciuto?


Non sono biologo né zoologo ma ho sempre avuto cani e gatti a casa e si può dire che la mia passione per gli animali sia nata proprio tra le mura domestiche.
Uno dei miei pochi ricordi d’infanzia è legato ad un cane: i miei genitori lo avevano promesso a me e mio fratello, ma poi il cane non è arrivato e questo mi ha causato un dispiacere indescrivibile. Ho pianto per un giorno intero! Poi, da quando ci siamo trasferiti nella nuova abitazione, abbiamo sempre avuto cani in casa.

Un altro ricordo nitido nella mia memoria è quello della nostra gatta, che non riuscendo ad allattare un suo cucciolo lo ha portato davanti alla cuccia del nostro cane, un collie. Tornati a casa, abbiamo trovato il cane che abbaiava per avvisarci dell’accaduto e ci siamo subito presi cura del piccolo, che poi è sopravvissuto.
Il mio rapporto con gli animali è sempre stato importante, ma si limitava a quelli che vedevo nei dintorni di casa. Questo lavoro mi ha dato l’occasione di entrare in contatto con molte altre specie, che ora ho imparato a conoscere e ad apprezzare.

 
In un continente come quello Africano sei a contatto con moltissimi animali: elefanti, leoni, serpenti, coccodrilli..ma ce n’è uno in particolare con il quale hai qualche problema  a “rapportarti”?  Anche se oramai ti sarai abituato, ti capita ancora di avere paura?


Certo! Una volta mi sono trovato a piedi di fronte a un maschio di elefante in calore, ti garantisco che di paura ne ho avuta tanta, ma proprio tanta! La paura in certe situazioni è necessaria, ci mette in allarme, poi però bisogna andare al di là della paura, per trovare una soluzione. Questo lavoro mi ha permesso di vincere molte paure ingiustificate di animali che non conoscevo. Si sa: noi temiamo quello che non conosciamo. Io in passato avevo paura dei serpenti, ora, avendo imparato a conoscerli, li temo ancora, li rispetto, ma ho anche imparato ad apprezzarli. Molte volte la paura di ciò che non conosciamo, del diverso, ci porta ad adottare dei comportamenti sbagliati che spesso possono creare problemi ancor più gravi. Basti pensare a quanti hanno paura dei cani: gli animali sentono questa paura e per difendersi reagiscono abbaiando o addirittura aggredendo chi li teme e così si entra in una spirale che non sembra avere soluzione…


Nel mio ultimo viaggio in Africa, un paio di settimane fa, la guida mi raccontava che spesso la gente dice: “Speriamo di non vedere dei serpenti!”, ma lui risponde “No, speriamo di vederli, altrimenti rischiamo di calpestarli e di scatenare la loro reazione!”
Tanti animali reagiscono perché in un certo qual modo “disturbati”. Il sonaglio del serpente a sonagli mi avverte della sua presenza, la vipera soffia per lo stesso motivo, il cobra si inarca per spaventarmi e allontanarmi, il cobra sputatore acceca l’aggressore per poter scappare. La supposta aggressività dei serpenti, spesso non è altro che un atteggiamento di difesa!
Su questa aggressività però, sono state costruite molte carriere. Io non amo i documentari che mirano solo ad affermare il personaggio che compie “prodezze” maneggiando animali pericolosi, anche se so bene che questo espediente narrativo paga dal punto di vista degli ascolti e capisco che, entro certi limiti, le situazioni devono essere enfatizzate per attirare l’attenzione del pubblico. L’esasperazione di certi comportamenti però, può indurre alcune fasce di pubblico, soprattutto i più giovani, a voler imitare il personaggio televisivo, magari anche a costo di correre rischi eccessivi, sia per le persone che per gli animali.

 

Una cosa che mi colpisce ogni volta che nei tuoi reportage parli di maltrattamenti di animali è il fatto che tu debba a volte, tuo malgrado, stare ad osservare ciò che succede senza intervenire. Deve essere davvero difficile...ricordi qualche episodio in particolare in cui non sei riuscito a trattenerti e hai protestato? Hai ottenuto dei risultati?


Sì, l’episodio più significativo mi è accaduto nel 2002, l’anno dei mondiali di calcio, in Corea del Sud. Lavoravo per Il Pianeta delle Meraviglie. Licia Colò mi propose di andare a documentare la cinofagia in Corea. In questo Paese cani e gatti vengono purtroppo considerati un cibo quotidiano, ma soprattutto molti credono che la carne del cane che muore con grande sofferenza acquisti potere afrodisiaco. Una convinzione tradizionale, senza alcun fondamento scientifico, a cui però molti credono, Un po’ come accade con il presunto potere afrodisiaco del corno del rinoceronte, dei testicoli delle tigri, delle pinne di squalo, ecc..
Io non mangio certo carne di cane, ma cosa posso fare di fronte ad una tradizione diversa dalla nostra? Gli indiani non mangiano carne di bovini, gli anglosassoni quella di cavallo.. mentre noi in Italia tutte queste carni le mangiamo. Anche per questi popoli il nostro è cannibalismo. Io poi ho imparato che non esistono “animali da cucina”: oltre ai cani e ai gatti, anche i cavalli, i maiali, le galline hanno un’intelligenza e una dimensione emotiva che spesso noi non conosciamo o non sappiamo apprezzare. E allora? Chi si può mangiare e chi no?

 
Detto questo, ho anch’io le mie tradizioni e la mia cultura. E allora, tornando al servizio in Corea del Sud, volevo mettere in chiaro questa differenza senza salire in cattedra o spiegare a chicchessia cosa si deve mangiare e cosa no. In Corea del Sud mi hanno sconsigliato di andare al mercato Seul, il Moran Market, erano passati già troppi giornalisti e i negozianti erano molto sospettosi e anche violenti. Allora siamo andati a Daegu, una grande città del centro-sud, a quattro ore di auto da Seul: due milioni e mezzo di abitanti e un grande mercato, dove erano in vendita anche i cani, quasi tutti di razza jindo, i “cani gialli”. Ovunque vi erano gabbie piene di cani e gatti ad attendere una triste fine e un odore nauseabondo che usciva dalle cucine, un silenzio spettrale. Nessun cane abbaiava, erano troppo terrorizzati per farlo. Le due cose che non dimenticherò mai sono gli occhi di quegli animali e il silenzio.

Passando davanti ad una delle tante gabbie mi hanno colpito gli occhi grandi, scuri e tristi di un cagnolino bianco e nero. Quando mi hanno detto che anche lui era destinato alla cucina, allora ho deciso di comperarlo. Non so perché proprio lui. Si dice che siano gli animali a sceglierci, e in questo caso è andata così. Lui mi ha scelto ed io mi sono lasciato semplicemente scegliere. Inizialmente, d’accordo con la redazione, lui doveva essere dato in adozione a una famiglia italiana. Pensa: nella prima puntata del Pianeta delle Meraviglie di quell’anno, dopo il reportage sulla cinofagia in Corea del Sud, doveva entrare in studio il cane protagonista del filmato…sarebbero arrivate certamente migliaia di richieste di adozione! Ma appena l’ho portato via dal mercato ho cambiato idea, e l’ho tenuto io.
Ricordo ancora come gli batteva il cuore mentre uscivamo dal quartiere delle cucine. Quando si è rilassato e non ho più sentito il battito del suo cuore ho avuto paura che morisse, tanto era spaventato. Era talmente impaurito che non abbaiava più. Ha abbaiato per la prima volta dopo quattro giorni che eravamo insieme, per proteggermi da una persona che entrata nella mia stanza.
DABI (si chiama Davide anche lui, in coreano però, è il nome che gli hanno dato i veterinari locali quando hanno compilato la sua scheda di degenza) da allora fa parte della mia famiglia. Mi ha anche accompagnato in molte trasmissioni: è un cane “televisivo”! Volevo risparmiare, almeno a lui, un triste destino, e ho trovato un amico vero, come solo un animale sa essere.

Tornando a casa nostra, sappiamo che il cane è al primo posto per te ma … Gattopoli vorrebbe sapere: cosa pensi dei gatti? Ne avrai visti parecchi durante i tuoi viaggi. Ti è capitato di fare dei reportages a riguardo?

 
Certo, ne ho fatti parecchi, soprattutto in Italia. Una volta ho fatto un pezzo su una cosiddetta “gattara” di Genova. Questa signora, con due figli, tutte le sere usciva per andare a sfamare i gatti delle colonie che seguiva. Un impegno gravoso. E mi sono chiesto: perché? Perché un rapporto così stretto anche con animali non tuoi? Poi ho conosciuto un’altra donna che dovendosi trasferire in Marocco si è portata con sé tutti i suoi gatti. Da queste e da altre persone come loro ho capito quant’è importante il rapporto con gli animali, anche con quelli più autonomi, come i gatti.
Si parla spesso di campagne contro l’abbandono degli animali, soprattutto in periodi come questo. Ben vengano, ma il punto di fondo è che dovremmo prendere coscienza che gli animali non sono oggetti! Spesso invece crediamo che tutto giri intorno a noi... In Florida due mesi fa sono stato a casa di un uomo che aveva un porcospino, alcune iguane, decine di serpenti nei cassetti, due pantere della Florida, due coccodrilli…e un gatto! Quando gli ho chiesto che senso ha tenere uno zoo in casa la sua risposta stata disarmante: “Perché lo voglio!”. Finché considereremo gli animali come degli oggetti, d’estate ci saranno sempre abbandoni e continueranno ad esservi persone che tengono in casa anche le specie che con le mura domestiche non c’entrano nulla!

 
Ma, tornando ai gatti, ho vissuto un’esperienza particolare nel Tempio dei Gatti in Birmania. Ho trascorso una giornata con i monaci di Chau Kon Chià, un monastero buddista che si trova sulle rive del lago Inle, una delle mete più frequentate dai turisti. Fra quanti raggiungono il lago, ben pochi si lasciano sfuggire l’occasione di visitare il tempio dei gatti. Tutto è iniziato 20 anni fa, quando il primo monaco ha iniziato a prenderne qualcuno con sé. Quello che all’inizio era un semplice gioco ha attirato l’attenzione dei visitatori ed è diventato un vero e proprio spettacolo che si ripete più volte al giorno, all’incirca ogni ora. Il tempio praticamente non lo guarda nessuno. Anche fra uno spettacolo e l’altro l’attenzione dei turisti è sempre concentrata sui gatti. Questi gatti avranno imparato a saltare ma soprattutto hanno capito che qui per loro non manca mai da mangiare. Lo scambio è chiaro: i gatti attirano i visitatori, e con loro le offerte, mentre i monaci in cambio garantiscono loro vitto e alloggio. Una situazione curiosa, che a me è sembrata anche un positivo esempio di convivenza fra uomini e animali.

Sempre più spesso si parla di equilibrio instabile del nostro pianeta causato dall’uomo, ormai la vera minaccia per la sua insaziabile voglia di possesso. Uno dei tanti esempi: ricordo un tuo servizio sugli oranghi del Camerun che sono a rischio estinzione a causa dell’abbattimento delle foreste e del bracconaggio. Pensi che sensibilizzare le nuove generazioni possa aiutare a cambiare la situazione? Cosa si dovrebbe fare a tuo avviso?


La sensibilizzazione secondo me è fondamentale. Noi che compriamo un mobile qui in Italia, spesso non sappiamo che anche quello in realtà era un pezzo di foresta. Non si arriva facilmente a comprendere l’origine del problema: ci sono troppi passaggi tra noi e l’albero abbattuto. E anche nei paesi in cui si taglia la foresta, non si può togliere il lavoro a tanta gente senza offrire un’alternativa. Anche se spesso quelle popolazioni sono le prime ad essere sfruttate, queste spesso sono le uniche possibilità di lavoro per loro, sto parlando  del Camerun come della Cina o di molti altri Paesi. Se il taglio del legname è l’unica fonte di reddito non si può semplicemente fermare tutto senza pensare di avere altre conseguenze negative. Non è sufficiente dire “Basta!”.

E’ necessario informare l’opinione pubblica perché abbia coscienza di quanto accade anche in Paesi lontani dal nostro e contemporaneamente offrire alternative di lavoro valide a chi vive nelle regioni più povere. Solo così, forse, si potrà invertire la tendenza all’autodistruzione a cui rischiamo di condannarci.

 

 
Perché secondo te programmi interessanti e culturali come i documentari vengono inseriti di rado e a orari a “scarsa audience” nei palinsesti delle varie emittenti televisive?

 
Demetrio Volcic, giornalista ed ex direttore del TG 1 diceva che “la tv Italiana fino alle 23.00 paga gli stipendi poi fa televisione”. I documentari hanno un ottimo rapporto costi-benefici, ma purtroppo viene trasmesso soprattutto ciò che fa registrare i picchi di audience più alti. Ed è il caso del Grande Fratello o dell’Isola dei Famosi. Ci sono programmi in RAI come Ulisse o Report che vanno in onda in prima serata e ottengono un’alta percentuale di share. Purtroppo quello che manca, spesso, alle rubriche di approfondimento, è la continuità.

Anche Timbuctu negli ultimi due anni è scomparso dalle prime serate estive di Rai Tre, però devo dire che negli spazi in cui continua ad andare in onda, la domenica alle 9.30 e alle 13.30 o in altre collocazioni occasionali, ha fatto registrare ottimi ascolti. Questo vuol dire dunque che il pubblico della tv non è così passivo come spesso viene dipinto, non è vero che accetta qualsiasi cosa, è vero invece che se un tema interessa, gli spettatori lo vanno a cercare, anche se cambia la collocazione del programma che lo tratta. Grazie a questi ascolti Timbuctu andrà in onda anche nella prossima stagione: stiamo girando i nuovi documentari che verranno trasmessi a partire da quest’autunno.


Un’ultima cosa prima di salutarti: quanti animali hai?
Per ora ho solo Dabi. In effetti è un po’ che parliamo in famiglia di una possibile adozione di un gatto….. e su Gattopoli vedo che non mancano!

Infatti… non hai che l’imbarazzo della scelta!
Ricordiamo a tutti i nostri lettori che Timbuctu è presente anche su Facebook e vi invitiamo ad iscrivervi al Gruppo cercando  “TIMBUCTU Rai 3 - Fans Club”.

 
Davide, grazie per essere stato con noi e per la tua gentilissima disponibilità. Se lo vorrai, ti aspettiamo ancora su Gattopoli!

 
Elena
www.gattopoli.it

 

Davide Demichelis ha trascorso gli ultimi dieci anni dello scorso millennio viaggiando soprattutto su e giù per l'Africa, dove ha realizzato reportage per giornali (fra gli altri Panorama, Oasis e vari quotidiani), radio e diverse serie di documentari televisivi sulle popolazioni, le culture e le guerre che hanno sconvolto la vita del Continente. I filmati sono stati trasmessi, oltre che dalle tre reti Rai, da una ventina di altre emittenti fra cui National Geographic Channel, NHK, Radio e Televisione Svizzera Italiana, Planete.

 
Dal 1999 ha iniziato ad occuparsi di animali, prima per "Ciak Animali in Scena", poi per "Il Pianeta delle Meraviglie" e quindi per "Timbuctu". In qualità di coautore ha anche pubblicato alcuni libri editi da Baldini & Castoldi, fra gli altri: “No Global”, “L’informazione deviata”, “La nuova colonizzazione” e “Quel che resta del mondo”.


 
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